«CULTURA TOSSICA DEL LAVORO, BURNOUT E STRESS: POI HO LASCIATO UNA DELLE PIù GRANDI AZIENDE AL MONDO E LA MIA VITA è CAMBIATA»

Negli ultimi anni, sempre più giovani stanno rifiutando la cultura tossica del lavoro, preferendo carriere che permettano un equilibrio tra vita personale e professionale. In un'epoca in cui il burnout è diventato un problema diffuso, molte nuove generazioni scelgono di dare priorità alla salute mentale e alle proprie passioni, mettendo in discussione il tradizionale culto della produttività a ogni costo. Un cambiamento che riflette una consapevolezza crescente: il lavoro non deve essere l'unica misura del valore personale, e il benessere non può essere sacrificato in nome del successo.

La storia di Cierra

Cierra Desmaratti, una giovane laureata di 25 anni, ha raccontato la sua storia di rinascita professionale e personale, che segue l'onda di tanti giovani come lei. Dopo un'infanzia in una famiglia molto umile a Naperville, Illinois, e aver affrontato da sola le spese universitarie al North Central College, l'assunzione presso Deloitte - una delle aziende di consulenza più importanti al mondo - sembrava il traguardo perfetto. Finalmente poteva respirare, sentirsi "normale", dopo anni di sacrifici, ha raccontato a Business Insider.

Ma presto si rese conto che quella sensazione di normalità era lontana. Entrata nel mondo della consulenza, in una delle aziende più rinomate al mondo, si trovò a dover smussare la sua personalità per adattarsi alla frenesia e alla cultura aziendale di Deloitte, un ambiente che premiava il ritmo incessante e dove sentiva di non poter essere davvero se stessa.

 

Fuori posto

L'inizio sembrava promettente. Quando fu assunta, nel settembre del 2021, Cierra partecipò all’onboarding nell’imponente sede di Chicago insieme ad altri 80-90 nuovi dipendenti. Tuttavia, sin da subito, si sentì fuori posto: i suoi colleghi sfoggiavano abiti firmati, mentre lei si sentiva inadeguata. Più provava a fare amicizia, più si accorgeva che, oltre agli abiti, c'era un'altra barriera: molti avevano frequentato prestigiosi college e avevano svolto stage nei "Big Four" ("Le quattro grandi", cioè le quattro più grandi aziende di revisione: Deloitte, PricewaterhouseCoopers, EY e KPMG), un mondo che lei non conosceva.

«Io venivo da una piccola università e avevo ottenuto quel lavoro grazie alla collaborazione tra Deloitte e l'Associazione Internazionale degli Attuari Neri», racconta. Nonostante il senso di conquista iniziale, il divario tra lei e i colleghi sembrava incolmabile. Quando menzionava il North Central College, nessuno sapeva nemmeno cosa fosse. Col tempo, Cierra si rese conto di essere l'outsider. I colleghi si univano in gruppi formati da anni di amicizie e reti di conoscenze costruite durante gli stage, mentre lei cercava faticosamente il suo posto in questo mondo nuovo.

 

Un contesto sociale invalicabile

A rendere tutto più difficile era l'ambiente di lavoro. Assegnata a un progetto di sei mesi per un cliente del settore assicurativo, Cierra riceveva solo un controllo settimanale da parte del suo manager, che però lavorava part-time sul progetto ed era spesso troppo occupato per darle l'attenzione necessaria. «Guardandomi indietro, rimpiango di non aver alzato la voce per chiedere più supporto», ammette Cierra con amarezza.

Ma oltre alla mancanza di supervisione, fu il contesto sociale a pesare di più. Pur partecipando agli eventi aziendali e alle ore di networking organizzate da Deloitte, si accorse presto che gli argomenti di conversazione erano dominati da temi tradizionalmente maschili: sport, viaggi, maratone. «Mi sentivo come se non ci fosse spazio per esprimere la mia femminilità», racconta Cierra, ricordando un episodio in particolare: «Durante un happy hour, un collega disse che solo le persone poco intelligenti credono in cose come i cristalli e l’astrologia. Io, cercando di mantenere il sorriso, risposi che mi consideravo intelligente ma anche spirituale. Il tavolo si zittì, e il discorso cambiò bruscamente. In quel momento capii che, per avere successo, dovevo adattarmi ai loro standard».

 

L'epilogo inevitabile: il burnout e la sorpresa

Con l'arrivo dell'inverno e l'inizio della stagione lavorativa più intensa, Cierra cominciò a soffrire dei sintomi del burnout. Le sue giornate lavorative si allungarono fino a 11 ore e ogni preoccupazione per la salute fisica e mentale svanì. Il senso di colpa cresceva: voleva fare carriera, ma al prezzo di sacrificare ogni parte di sé. «Non mi sentivo a mio agio a parlare del mio carico di lavoro con nessuno, perché tutti sembravano vivere il burnout come un valore in più».

A marzo, le sue prestazioni furono valutate negativamente, nonostante non avesse ricevuto alcun feedback in precedenza. Era una frustrazione aggiuntiva, ma Cierra, spaventata dal rischio di fare la voce grossa, si limitò a lavorare ancora più duramente.

Poi, il colpo finale. A settembre 2022, senza preavviso, fu convocata a una riunione su Zoom dove le comunicarono il licenziamento. «Sapevo che era in arrivo. Ma quando mi dissero che era una decisione definitiva e irrevocabile, mi sentii come se il mondo mi crollasse addosso. Non riuscivo nemmeno a respirare», racconta. Le restavano solo due settimane di liquidazione e qualche risparmio. Quella notte, pianse fino ad addormentarsi.

 

Un'altra chance

Dopo il licenziamento, Cierra si trasferì temporaneamente dalla sua famiglia nel Sud per risparmiare denaro. Durante i due mesi successivi, si dedicò a migliorare il curriculum e a cercare nuove opportunità. Ma, soprattutto, prese del tempo per riflettere. Capì che il suo desiderio di successo professionale non poteva più sacrificare la sua vita personale e che aveva bisogno di un cambiamento, non solo di lavoro, ma anche ambientale.

Quando ottenne una posizione come analista presso Transamerica, decise di trasferirsi a Miami. Qui, immersa nei colori vivaci e nella cultura della città, Cierra tornò a vivere davvero. «Ora faccio sport, mi vesto con colori sgargianti e esploro questa città frizzante. Mi sento finalmente viva».

Il nuovo lavoro si è rivelato completamente diverso da Deloitte: la cultura aziendale era collaborativa, i ritmi di lavoro più sostenibili, e per la prima volta Cierra sentiva di poter essere se stessa. «Se potessi parlare alla Cierra di qualche anno fa, le direi che ha sempre delle scelte. Accettare un lavoro solo per la sicurezza di uno stipendio mi ha fatto perdere di vista chi ero. Oggi, non potrei essere più felice di essere stata licenziata».

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