A Kuta o a Uluwatu la giungla entra perfino dentro le ville di bambù che hanno eretto proprio di fronte ai cavalloni delle onde, quindi meglio starsene in piscina a lavorare. O, al massimo, al tavolino di un bar sull'oceano o a un coworking tra le palme dove, ogni tanto, compare in giardino una scimmia ma almeno si fa networking. Siamo a Bali, anzi a Silicon Bali, l'isola degli dei che è diventata l'ultima spiaggia dei nomadi digitali arrivati fin qui spinti dal desiderio di lanciare nuovi business in bikini. Sono giovani europei intorno ai 30 anni, c'é qualche australiano e ora vedi anche i cinesi negli yoga retreat di Ubud e nei bar a ordinare smoothie e matcha tea. Per il governo chi lavora da remoto è una benedizione, tanto che qui puoi sviluppare software e start up o qualunque altra impresa senza pagare tasse per 5 anni di fila. Che è uno dei motivi per cui ormai anche le giovani famiglie con figli si decidono a partire e provare a "svoltare". Insomma, a realizzare almeno uno dei loro sogni. Del resto, nel mondo, sono ormai 35 milioni quelli che lavorano a distanza e per ogni straniero che decide di vivere da noi, secondo un recente studio della Fondazione Nord Est e dell'associazione TIUK, sono 17 gli italiani che abbandonano il Paese. Alcuni volano a Canggu, ex paesino di pescatori e surfisti che al momento è il centro del remote working: internet veloce, ritmi lenti, sicurezza, accoglienza straordinaria. Qui, i più svegli riescono a vivere con 700 euro al mese (inclusi i ristoranti) in una villa condivisa con altri ragazzi che, intorno alle cinque del pomeriggio, si godono il tramonto in short. Come Stella, Ayu, Natalia e Roberta che proprio a Bali hanno trovato il coraggio di provare un'altra vita.
Stella Zhou, 30 anni, cinese, insegnante di inglese
Per tutta la vita ho avuto la sensazione di starmene seduta in un bar a guardare, da dentro, le persone che passavano là fuori. Le vedevo, ma il vetro ci faceva da barriera. Così la mia mente e il mio cuore sono rimasti fuori troppo a lungo. Venire a Bali, per me, è stato come uscire dal bar e far parte della vista. Viverci. Per otto anni ho insegnato l'inglese ai cinesi, ma anche la cultura occidentale. Ero già stata in Corea, a Singapore e in Giappone, ma di Bali mi sono innamorata perché qui si è scatenata la mia personalità british: finalmente ho incontrato decine di persone da tutto il mondo e mi sono sentita libera. Credo che la mia personalità in inglese si esprima al meglio perché è davvero una lingua più aperta e razionale, a differenza del cinese che è complicato e ha frasi tanto complesse. Quando, dopo due mesi, sono tornata a Pechino, una mattina mi sono svegliata nella mia casa cinese ed è stato come… morire. Hai presente quando ti si chiude lo stomaco perché il tuo ragazzo ti ha mollato? Ecco, uguale. Quindi ho passato altri 4 mesi a ripianificare il mio ritorno nell'isola e ci sono riuscita. Da piccola soffrivo di deficit di attenzione e iperattività e riuscivo a concentrarmi solo disegnando. Le maestre mi tenevano buona assegnandomi la decorazione di centinaia di flashcards (schede didattiche, ndr) e io dipingevo oggetti e persone per ore, completamente persa in fantasie arcobaleno. Ero così sensibile che la notte piangevo disperata per le sciocchezze che mi accadevano di giorno: imparare un'altra lingua, sognare altri luoghi e confrontarmi con una cultura completamente diversa dalla mia mi ha curata. E poi qui sono rinata perché ho resettato tutto abbracciando una nuova vita e una nuova me. È stato facile fare nuove amicizie, trovare nuove opportunità di lavoro e perfino una deliziosa casa sul mare che mai avrei immaginato di potermi permettere. Ora voglio rendere la comunità multilingue più forte. Siamo 27 teacher e cerchiamo di insegnare l'inglese in maniera creativa usando le serie tivù, i film, la musica, ma anche l'intelligenza artificiale e la scienza perché l'obiettivo è dimostrare che imparare un'altra lingua non è noioso e soprattutto può cambiare il modo in cui ti relazioni con gli altri e con il mondo.
Ayu Kristiani, 25 anni, indonesiana, community manager a Tropical Nomad
C'è gente che se la sogna questa valle disegnata dai fili verdi delle risaie e il monumentale Gunung Agung che emerge potente da un mare di nuvole: ci vengono a fare trekking e puntano la sveglia alle 3 del mattino per scalare questo vulcano che entra ancora nella mia cameretta dalla finestra. Sono cresciuta a Sidemen, nella parte orientale di Bali, la più selvaggia, autentica e ancora un po' disgraziata. Mamma casalinga, papà muratore, in casa si parlava solo indonesiano e io sono stata la prima della famiglia a imparare l'inglese perché volevo scappare da questo paradiso perduto. Da piccola credevo che un giorno avrei lavorato in banca perché quello era l'unico posto, al villaggio, in cui vedevo gente vestita elegante e mi piaceva immaginarmi attraversare la sala delle riunioni in tailleur e tacchi alti. Non sapevo ancora esistessero il beach wear e le borse di Chanel, anche se avevo intuito ci fosse molto di più al di là delle colline. E così a 18 anni sono salita sul mio scooter e mi sono trasferita a Canggu, il quartiere dei nomadi digitali e dei resort fighi. Con la mia parlantina e una sicurezza che non si è mai capito da dove arrivasse, sono finita a fare la receptionist in un magnifico hotel. Ma poi il Covid ha cambiato tutto e ho dovuto ricominciare: in un gruppo di Facebook ho conosciuto un surfer giapponese che stava aprendo Tropical Nomad, un nuovo coworking sostenibile tra le palme. Parlo anche con i tavoli, io. Cioè, sono così socievole che non potevo che lavorare in un posto in cui il mio obiettivo è rendere felici gli iscritti. Quindi sono stata assunta come community manager. Tutti vogliono venire a Bali e sperimentare la vita sull'isola, quindi io organizzo weekend al mare o in montagna, eventi, feste. Il mio talento? Fare networking con determinazione e senza alcuna fatica. I nostri clienti sono sviluppatori web e artisti, persone interessanti che sanno gestire bene il loro tempo e lavorano in costume o pareo. Arrivano soprattutto dall'Europa, alcuni da Singapore, dalla Thailandia e dalla Cina. Vivendo con loro sono riuscita ad assorbire la loro energia e sono sicura che anche io riuscirò a viaggiare, presto. Mi piacerebbe provare in Giappone perché è un Paese pieno di grazia, pulito e con paesaggi magnifici. Ci vediamo lì.
Natalia Kala Hernandez, 27 anni, americana, imprenditrice digitale
Viaggio da quando ho 17 anni: sono capitata in Danimarca per uno scambio culturale con gli Stati Uniti e, da lì, ho fatto fatica a fermarmi. La mia è la prima generazione di cubani-americani della famiglia e mio padre, grazie a un paio di matrimoni, è riuscito a fare nove figli, quindi ho sempre saputo che avrei dovuto trovare la mia strada da sola. È che, a un certo punto, avevo una specie di travel bug. Ho fatto la au pair in Scozia e la vendemmia in Toscana, ho imparato a meditare a Rishikesh, in India, e l'astrocartografia mi ha portata a Mauritius. Ma il Covid mi ha costretto a tornare dai miei a Kissimmee, in Florida. Che cosa ne sarebbe stato di me che, oramai, ero una sradicata? Non avevo terra che mi reggeva, ma sapevo che non era normale. Mi sono rimessa a studiare e sono diventata una health coach di medicina funzionale, un approccio clinico innovativo che si concentra sull'equilibrio fisico e mentale dell'organismo analizzando non solo i sintomi di una malattia ma anche la qualità della vita dei pazienti. Oggi mi dedico alla salute femminile e lavoro nel femtech, cioè sviluppo software e servizi che utilizzano tecnologie per la medicina di genere: sì, esiste, ed è per questo che mi sono trasferita a Bali. Ci ero già stata ed era l'unico posto in cui mi sentivo davvero a casa perché i balinesi sono accoglienti, gli uomini al limite del servile e la natura esplosiva dell'isola, su di me, ha una funzione incredibilmente calmante. Sono una nomade digitale, ma qui riesco ad avere uno stile di vita a cinque stelle pagando prezzi ridicoli rispetto all'Occidente. E con lo Kriyā Yoga e la meditazione ho eliminato definitivamente lo stress dalla mia esistenza. Vivo tra le risaie di Ubud, il centro spirituale di Bali, e sono stata "adottata" da una famiglia di Bali che mi tratta come una figlia. Aiuto le donne che soffrono di sindrome pre-mestruale, un disturbo assai simile a quello post traumatico che io conosco bene, essendoci passata. Quando ero una bambina sognavo di condurre un programma di cucina in tivù ma in autunno lancerò l'app MyKali perché oltre a saper cucinare piatti succulenti ora ho l'opportunità di provare a guarire il pianeta guarendo prima i grembi del mondo.
Roberta Capriulo, 33 anni, italiana, ingegnera gestionale di Salsation
Una top manager a Manhattan: questo volevo diventare. Invece sono finita a Philadelphia perché il mio fidanzato aveva trovato un lavoro spettacolare, mentre io avevo lasciato Pricewaterhouse Coopers per un sogno americano che, avrei scoperto solo dopo, non si sarebbe mai realizzato. Dove avevo sbagliato? Volevo solo inseguire l'estate e invece mi ero fatta portare a spasso da lui. Che neanche mi avrebbe sposato perché i suoi si stavano separando e lui, poverino, aveva perso fiducia nel matrimonio. Ero un ingegnere gestionale, avevo la testa dura, idee chiare. Possibile? Mi mandavano in giro per il mondo a fare la consulente informatica ai giganti delle assicurazioni e a quasi 30 anni non sapevo più che cosa volevo. Così mi sono presa una pausa. Mi ci sono voluti un paio di mesi tra Costa Rica e Panama per riflettere e tornare in me: trovavo lavoretti su workaway.com, negli ostelli o nei bar, facevo yoga, conoscevo gente. E mi sono tornate in mente le colleghe di Jakarta che mi dipingevano Bali come il paradiso, il luogo ideale dove ricominciare e lanciare nuovi business. Era l'isola senza inverni. Ho fatto in tempo a salutare i miei genitori a Milano, ho comprato un biglietto aereo e sono ripartita. Ora ho un'etichetta di abbigliamento per lo yoga, Balissimo, e un lavoro che mi consente di vivere dove voglio, di fare sport, avere relazioni sociali. Vivo in una villa con piscina e gestisco il mio tempo al mare e in ufficio proprio come ho sempre sognato. Curo anche la logistica e l'organizzazione di un altro marchio di fitness, Salsation. Insomma, mi basta un telefono per esercitare le mie competenze e guadagnarmi da vivere. No, un ragazzo non l'ho trovato, amici invece tanti perché la comunità degli expats è una specie di famiglia in cui c'è sempre qualcuno disposto ad aiutarti. Ho capito che per me è più importante godermi i piccoli momenti, avere più tempo per me stessa, fare esattamente tutto ciò che desidero e senza neanche un senso di colpa. Ho deciso di non rimandare a un altro giorno, a quando sarò ricca o sarò grande. Ho deciso di vivere nell'oggi. Nell'ora.
2025-01-16T07:54:42Z